di Franco Mostacci
In questi anni la nostra dipendenza dal Pil è aumentata sempre di più. Non vorrei essere frainteso. Il Pil non è un numero da prendere e buttare, non fosse altro perché aumenta insieme all’occupazione e al reddito delle persone.
Dobbiamo però uscire dalla logica perversa secondo la quale il Pil deve crescere a tutti i costi, perché è il riferimento principale per i mercati finanziari e le agenzie di rating e perchè ci consente di tenere sotto controllo i parametri della finanza pubblica (il deficit e il debito), divenuti sempre più stringenti con il fiscal compact e i vincoli imposti dai regolamenti europei.
E’ da tempo riconosciuto che il Pil misura l’insieme delle attività economiche in termini monetari, ma non il benessere e il reale progresso di un Paese.
I cittadini, infatti, non percepiscono il Pil come un’entità in grado di modificare il loro standard di vita, a differenza di altri eventi che li toccano più da vicino, come l’insicurezza del posto di lavoro, il degrado ambientale, la difficoltà ad accedere ai servizi sanitari pubblici, la carenza di posti all’asilo nido o la riduzione del tempo pieno a scuola.
E, siccome il Pil ignora tutto ciò che non ha un valore di mercato, si escludono le attività non remunerate: la produzione domestica, le cure prestate ai bambini o agli anziani, il volontariato, e così via.
Inoltre, poiché non distingue le spese in base alla loro utilità, cresce anche se aumentano gli incidenti stradali, la criminalità, i costi sociali e sanitari conseguenti all’inquinamento dell’aria, della terra e dell’acqua. E se l’inverno è stato più mite e si è risparmiato sul riscaldamento il Pil ne soffre.
Ma, cosa forse ancora più grave, non distingue i consumi rispetto alla loro sostenibilità nel tempo, come l’uso di risorse non rinnovabili, il deterioramento dell’ambiente e la perdita della biodiversità. Il Pil aumenta anche se distruggiamo le ricchezze naturali sottraendole alle generazioni future.
Dovremmo poter distinguere tra Pil “buono” e Pil “cattivo” e utilizzare solo il primo come parametro di
valutazione della politica economica. E invece no. Tutto fa Pil, tutto ciò che smuove moneta è considerata crescita.
Ora abbiamo appreso dall’Istat che, secondo le regole internazionali del nuovo sistema dei conti economici (SEC 2010), saranno conteggiate nel Pil anche le attività illegali: traffico di sostanze stupefacenti, servizi della prostituzione e contrabbando (sigarette, alcool). Forse sarebbe stato più saggio, anche per le indubbie difficoltà di misura, aggiungerle in via sperimentale senza influire sul Pil ufficiale. Ma, ormai, il dato è tratto.
Secondo le prime stime di Eurostat, il Pil italiano (anche quello degli anni passati) aumenterà tra l’1% e il 2%, ma bisognerà attendere il 3 ottobre per conoscere le cifre ufficiali. Certamente scenderanno i rapporti debito/Pil e deficit/Pil dando un minimo di respiro al percorso di consolidamento fiscale.
Ma a quale prezzo visto che ad aumentare è solo il Pil “cattivo”?
Supponendo che in Italia le attività illegali siano superiori alla media europea, finiremo per finanziare ancora di più il bilancio dell’Unione europea. Alcune regioni svantaggiate, in cui si concentrano maggiormente determinate attività illegali, vedranno crescere più di altre il proprio Pil; saranno considerate più ricche e rischieranno di vedersi ridotta l’assegnazione dei fondi strutturali.
La lotta alla prostituzione, al traffico di stupefacenti e al contrabbando sarà antieconomica perché produrrebbe una caduta del Pil. Per favorire il rispetto dei parametri di Maastricht sarà meglio chiudere un occhio e lasciar prosperare le attività illegali. Paradossalmente, il sequestro di una ingente partita di droga o una retata di prostitute nuocerebbero all’economia e potrebbero far cadere le borse o salire lo spread.
Ci vuole poco per rendersi conto che una siffatta visione della realtà economica, che insegue solo i movimenti di denaro è priva di senso etico, pericolosa e non ha nulla a che vedere con il benessere, il progresso sociale e la qualità della vita.