di Monica Montella e Franco Mostacci
pubblicato su Scenari economici
Recentemente abbiamo pubblicato alcuni articoli che illustravano lo stato di salute dei nostri conti pubblici. Con questo nuovo contributo riepiloghiamo quello che abbiamo detto finora e cerchiamo di individuare alcuni motivi per i quali l’economia italiana è bloccata e non cresce.
In primis bisogna ricordare che tra il 1960 e il 2012 la variazione del debito pubblico in termini nominali è stata mediamente del 6% l’anno.
Nel 2012, su 81,5 miliardi di euro di aumento di stock di debito pubblico (il flusso dell’anno), il 58% è derivato dall’indebitamento netto o deficit [1] e il 42% dai flussi finanziari[2]. Però quando il saldo primario[3] è positivo (come sta accadendo negli ultimi anni in Italia), l’indebitamento netto è causato soprattutto dalla spesa per interessi che sta facendo aumentare notevolmente il debito pubblico.
Lo stock del debito pubblico infatti alla fine del 2011 era di 1.907 miliardi di euro e gli interessi passivi che l’Italia ha pagato nel 2012 ammontavano a 86,7 miliardi di euro, (ad un tasso medio implicito del 4,5%). L’Italia in definitiva sta pagando tassi di interesse particolarmente elevati rispetto agli altri paesi europei.
Ma che impatto ha nell’economia reale questo alto costo del denaro pagato sotto forma di interessi ?
L’impatto è depressivo. Il governo italiano per finanziare la spesa pubblica spende emettendo titoli del debito pubblico che costituiscono, fra le altre funzioni, il risparmio di chi li acquista. Ogni prestito concesso dai mercati al governo italiano, non più con sovranità monetaria, ha implicitamente un rischio d’insolvenza dovuto al fatto che per finanziarsi deve rivolgersi ai mercati privati, e quindi non ha più una capacità illimitata di onorare il suo debito se non tassando spaventosamente i cittadini (ma fino ad un certo livello) o privandoli dei servizi forniti dalla PA.
Ne consegue che il Pil decresce da cui ne scaturisce un minore gettito fiscale, e ciò peggiora ulteriormente l’indebitamento e il debito, ma questo impatta sui mercati privati che si vedono costretti ad aumentare i tassi, per assicurarsi contro l’insolvenza dello Stato il cui debito è sempre più insostenibile. I mercati privati in questo caso possono spolpare l’economia italiana attraverso il circolo vizioso dei tassi di interesse che aumentano sempre più, (pensiamo ad una società finanziaria che applica ad un cittadino/impresa già indebitato un tasso sempre più usuraio per concedergli ulteriori prestiti). E più aumentano i tassi, più i debiti sono insostenibili, e più sono insostenibili, più aumentano i tassi. Si instaura una situazione che si avvita su se stessa senza offrire una speranza concreta di crescita. Nel 2012 la sostenibilità del debito pubblico, in senso convenzionale, non è stata raggiunta e il rapporto debito/Pil è passato da 120,8% a 127%. La non sostenibilità è stata provocata proprio dagli alti tassi di interesse pagati che incidono sulla variazione del debito pubblico.
Gli sforzi di risanamento della finanza pubblica portati avanti dai vari Governi italiani negli ultimi anni tendevano solo a garantire un consistente avanzo primario, grazie ad una elevata pressione fiscale e al taglio della spesa pubblica. Ma nulla é stato fatto e si continua a fare per ridurre l’onere dei tassi di interesse.
La vulnerabilità di un Paese alle speculazioni finanziarie dipende inoltre dalla composizione del suo debito pubblico rispetto ai settori che lo possiedono. Da questo punto di vista l’Italia non brilla, visto che il 49% è detenuto dalle istituzioni finanziarie e monetarie, il 5% dalla Banca d’Italia, l’11% da famiglie e imprese e ben il 35% da soggetti non residenti.
Quindi gli istituti di credito possiedono una fetta consistente del debito pubblico sottoforma di titoli di Stato, il cui rendimento per loro è altamente proficuo e questo comporta una esigua liquidità monetaria da destinare all’economia reale. Inoltre un’altra fetta consistente di debito pubblico è posseduta da soggetti non residenti in Italia che possono quindi ridurre l’autonomia di un Paese in termini di liquidità disponibile.
E da ciò si capisce perché l’Italia riguardo ai tassi di interesse pagati sul debito pubblico, è stata inspiegabilmente il fanalino di coda per il 2012 e lo sarà probabilmente anche nel 2013, pur essendo uno dei pochi paesi a poter vantare un solido avanzo primario e un indebitamento netto in linea con la soglia del 3% rispetto al PIL.
Ma allora cosa è successo realmente?
Facciamo un passo indietro, ritorniamo ai famosi parametri del Trattato istitutivo dell’Unione Europea[4] che ci ha imposto di non sforare il 3% del rapporto indebitamento/PIL e il 60% del rapporto debito/PIL. Che ha significato per un paese europeo rispettare questi vincoli?
Significa che ogni Stato in Europa ha un margine di spesa in deficit che ammonta al 3% del suo PIL, che nel caso italiano ammonta a circa 47 miliardi di euro nel 2012. Non si tratta di una cifra esigua considerando che negli ultimi anni sono stati addirittura registrati avanzi primari consistenti. Il problema é rappresentato dalla spesa per interessi passivi che l’Italia è costretta a pagare ogni anno, che non solo azzera l’avanzo primario ma la costringe a chiedere in prestito altri finanziamenti, rendendoci schiavi degli speculatori finanziari. Se però la crescita economica invertisse la tendenza i margini di manovra sarebbero maggiori.
Significa anche che ogni Stato non può superare il 60% del debito rispetto al suo PIL e questo è il nostro problema più grande perché attualmente viaggiamo su una cifra del 130,2%, una cifra molto lontana dal 60% fissato dall’Europa. Questo è soprattutto ciò che vedono gli analisti finanziari ed è per questo che sono scettici ad investire in Italia o se lo fanno chiedono di essere ripagati con tassi di interesse ben maggiori di quelli di altri Paesi.
Nella tavola 1 infatti sono riportati i saldi di finanza pubblica e i due rapporti caratteristici per i principali Paesi dell’area euro e la spesa per interessi. Il margine di indebitamento (cioè il 3% del pil) è il massimo sforamento permesso che può essere realizzato in un anno per non eccedere la soglia del patto di stabilità come prevista per regolamento. Il problema dei tassi di interesse come si può notare è Europeo oltre che italiano perchè in Europa circa 300 miliardi di euro confluiscono nel sistema finanziario e non nell’economia reale. Queste cifre devono far riflettere i governanti europei.
Tavola 1 – Saldi di finanza pubblica e rapporti caratteristici nei principali Paesi UEM – Anno 2012 (milioni di euro e percentuali)
Fonte: elaborazioni su dati Eurostat
Come se non bastasse, il peggioramento della situazione economica ha portato a sottoscrivere un nuovo Patto di Stabilità Europeo che ha introdotto concetti più restrittivi di sostenibilità del debito pubblico (soglia del patto di stabilità)[5], prevedendo per quei paesi non virtuosi (cioè che hanno un debito superiore al 60% del PIL) una riduzione annuale di un ventesimo della differenza tra il rapporto debito/Pil (caso Italia 127%) e il valore di riferimento (60% del debito/PIL).
In Italia non siamo in grado di affrontare i problemi strutturali del paese (sistema produttivo non competitivo, pubblica amministrazione poco efficiente, mercato del lavoro statico) e nel frattempo i governi continuano ad applicare una politica economica inefficace, che prevede meccanismi di revisione della spesa pubblica e una politica fiscale soffocante per cercare di ripianare i debiti contratti in una moneta ‘estera’, cioè l’Euro.
Per tenere sotto controllo il debito pubblico rispetto al Pil ci vuole ben altro.
Bisogna ricordare ai nostri polity makers che la dinamica del debito pubblico deriva da tre fattori: dalle politiche di bilancio, dall’attività macroeconomica e dai movimenti del settore finanziario. Continuare a insistere solo sul primo trascurando gli altri due e le relazioni che li legano rappresenta una politica economica suicida.
Non contenti, nel 2012 con il governo Monti è stato ulteriormente ristretto il campo di azione con la riforma costituzionale che ha sancito il pareggio di bilancio strutturale e la sostenibilità del debito pubblico, vincolando la politica economica ai patti di stabilità europea. Ci siamo legati le mani mentre continuiamo a non aggredire la spesa per interessi che continua a crescere e a impoverirci.
Perché allora dobbiamo prendercela con l’Europa se il problema è in Italia?
In questo contesto prendersela con l’Europa invece che con i responsabili politici in Italia della situazione che si é venuta a creare può apparire come uno sviamento dai problemi reali.
Le istituzioni europee non sono però esenti da responsabilità, principalmente per non aver monitorato preventivamente evidenti situazioni di rischio e aver mostrato troppa indulgenza, in casi come la Grecia ma anche l’inarrestabile crescita del debito pubblico italiano. Se negli anni passati fosse stata preventivamente monitorata la sostenibilità del debito pubblico si sarebbe potuto intervenire tempestivamente al verificarsi dei primi segnali negativi e soprattutto individuarne subito la causa scatenante.
Il sistema di monitoraggio dei conti pubblici che siamo riusciti a costruire, integrando tra loro gli indicatori messi a disposizione dagli organismi istituzionali, ci consente di seguire le diverse fasi della creazione del debito pubblico e dei fattori che lo determinano e va a colmare un vuoto informativo essenziale per garantire un’informazione continua e tempestiva sullo stato di salute della finanza pubblica.
Purtroppo non si tratta di un sistema di controllo ufficiale esterno e per averne uno dobbiamo aspettare che il Parlamento italiano attivi al più presto il Fiscal Council e che questo sia messo in condizioni di verificare, in maniera indipendente rispetto alle istituzioni governative che producono i dati, l’operato del Governo nella sua capacità o incapacità di gestire la finanza pubblica. Attualmente il Governo si sta dimostrando incapace di traghettare l’Italia fuori dalla crisi economica e restituirle un ruolo di primo piano di un tempo lontano.
Note
[1] E’ la somma tra saldo corrente e saldo in conto capitale cioè la differenza tra le entrate e le uscite che la pubblica amministrazione sostiene per il suo mantenimento.
[2] Posta particolarmente delicata perché confluiscono molte voci di natura finanziaria quindi liquidità monetaria che non deriva dall’economia reale. Negli ultimi 10 anni infatti sono stati accumulati circa 80 miliardi di euro di flussi finanziari.
[3] Il saldo primario è l’indebitamento netto meno la spese per interessi passivi
[4] Precisamente il trattato istitutivo dell’Unione Europea prevede che: 1) se il rapporto tra il disavanzo pubblico, previsto o effettivo e il prodotto interno lordo superi un valore di riferimento (3% del PIL); 2) se il rapporto tra debito pubblico e prodotto interno lordo superi un valore di riferimento (60% del PIL).
[5] Tra le regole inserite nel Fiscal compact, le più importanti sono quelle previste nel Protocollo sui deficit eccessivi con la “Procedura disavanzi eccessivi”, modificato nel 2005, allegato al Trattato che stabilisce: • il deficit strutturale annuo della pubblica amministrazione non deve superare lo 0,5% del PIL e l’1% per i paesi il cui debito pubblico è inferiore al 60% del PIL; • obbligo per i Paesi con un debito pubblico superiore al 60% del PIL, di rientrare entro tale soglia nel giro di 20 anni, riducendo il debito di un ventesimo dell’eccedenza ogni anno; • il deficit pubblico dovrà essere in ogni caso, e cioè qualunque sia la fase congiunturale, mantenuto sempre al di sotto del 3% del Pil. Obbligo per ogni stato di garantire correzioni automatiche con scadenze determinate se non è in grado di rispettare gli obiettivi di bilancio; impegno a inserire le nuove regole in norme di tipo costituzionale.