di Franco Mostacci
pubblicato su Il Fatto Quotidiano (11 marzo 2015, pag. 14)
Il debito pubblico italiano è aumentato nel solo 2014 di 66 miliardi di euro, toccando quota 2.135 miliardi. Nel 2015 il Governo prevede che cresca di altri 50 miliardi, con una spesa per interessi di 74 miliardi. Il peso del debito pubblico, pur se ancora sostenibile in termini di liquidità e solvibilità, da anni limita fortemente la crescita.
Nella sua opera ‘Il Capitale nel XXI secolo’, Thomas Piketty dedica un capitolo alla questione del debito pubblico. Per uscire dalla crisi del debito che sta minando le economie del Vecchio Continente, l’economista francese suggerisce nell’ordine tre possibili soluzioni: un’imposta sul capitale, l’inflazione e l’austerità.
Avendo come obiettivo l’equità distributiva, “il metodo più trasparente, più giusto e più efficace” per abbattere lo stock di debito pubblico è tassare i patrimoni privati, immobiliari e finanziari.
Con un’imposizione straordinaria del 15% delle ricchezze possedute dalle famiglie si potrebbe azzerare in un colpo solo il debito pubblico, ma anche con aliquote progressive più basse e salvaguardando i piccoli patrimoni (ad esempio non tassando l’abitazione di proprietà) si potrebbe ricondurre il debito a livelli fisiologici, affrancando i conti pubblici da oneri eccessivi di spesa per interessi.
Una politica fiscale che penalizza i detentori dei capitali non è di facile attuazione per il timore della fuga all’estero dei capitali finanziari e richiede un Governo che abbia un ampio consenso popolare. Per lo stesso Tsipras, nonostante gli annunci, non sarà semplice varare in Grecia una sostanziosa patrimoniale.
Il fardello del debito pubblico può essere ridotto anche con l’inflazione. Se i titoli di Stato non sono indicizzati, l’aumento dei prezzi consente di pagare interessi di pari importo nominale, ma di valore reale ridotto. Nel secolo scorso, in diverse situazioni, la riduzione del debito è stata conseguita grazie alla svalutazione monetaria. A parte l’attuale quasi-deflazione, che pone ancora più a rischio la sostenibilità del debito pubblico, un’inflazione oltre il 2% l’anno troverebbe la ferma contrapposizione della Bce, il cui principale obiettivo, da perseguire con gli strumenti della politica monetaria, è proprio la stabilità dei prezzi. Senza contare il fatto che, al crescere dell’inflazione, aumenterebbero anche i tassi di interesse, vanificando – almeno in parte – l’effetto benefico sul debito reale. Un aumento dei prezzi peggiorerebbe, poi, le condizioni di vita dei ceti meno abbienti in misura maggiore di quanto inciderebbe sui più ricchi.
Sempre meglio, comunque, delle politiche di austerità. Il percorso intrapreso dall’Europa per uscire dalla crisi economica, fatto di tagli alla spesa pubblica e di vincoli sul deficit, sta deprimendo la crescita e produce effetti negativi, sia diretti che indiretti, sul debito pubblico, alimentando un circolo vizioso. L’euro paga le conseguenze di essere una moneta senza Stato, così che risulta impossibile avere un politica fiscale comune ed emettere Eurobond. Anche il Quantitative Easing lanciato dalla BCE rischia di essere depotenziato dal divieto di acquistare i titoli direttamente dagli Stati emittenti, dovendoli invece riacquistare sul mercato secondario dai grandi istituti bancari e finanziari.
L’analisi di Piketty si ferma – come è giusto che sia – alle misure convenzionali di rientro dal debito, non prendendo in considerazione le diverse forme di ristrutturazione del debito.
Tra esse spicca la proposta PADRE, acronimo di Politically Acceptable Debt Restructuring in the Eurozone, di Pierre Pâris e Charles Wyplosz. Gli autori ritengono che l’enorme debito pubblico accumulato sia un retaggio di errori politici del passato e che i costi di ristrutturazione devono essere assorbiti con la massima gradualità possibile. Il piano PADRE prevede la costituzione di un’Agenzia internazionale – ma può essere la stessa Bce – che acquista i titoli di Stato al valore di emissione in misura proporzionale alla quota azionaria posseduta in Bce e li trasforma in obbligazioni perenni a tasso di interesse nullo. Per finanziare l’operazione l’Agenzia emette a sua volta (in perdita) obbligazioni a un tasso di mercato, comunque più basso di quello che sopporterebbero i diversi Stati. Questi ultimi provvedono a rimborsare nel tempo le perpetuities attraverso i profitti da signoraggio e si impegnano a politiche fiscali accorte, pena la perdita immediata del beneficio (clausola sul moral hazard). Nessuno Stato trarrebbe vantaggio a danno di altri e l’onere del debito si scaricherebbe sulle generazioni future, allentando la morsa dell’attuale austerità. Il piano PADRE è neutrale rispetto alla redistribuzione dei patrimoni e nella gerarchia proposta da Piketty può essere collocato tra l’imposta da capitale e l’inflazione.
Un altro strumento ancor meno convenzionale di ristrutturazione del debito è lo scambio forzoso, che equivale a una sorta di imposta patrimoniale applicata, però, ai soli possessori di titoli di Stato. In Italia, ad esempio, sono in circolazione 12 miliardi di BTP trentennali emessi nel 1993 al 9%, che generano una spesa per interessi fino a scadenza di oltre 1 miliardo di euro l’anno. Se si sostituissero tutti i titoli in circolazione con altri che offrono un rendimento del 2%, si risparmierebbero nel 2015 circa 27 miliardi di euro di interessi. Si tratta sicuramente di un’ipotesi fantasiosa, anche per le conseguenze che avrebbe sul sistema del credito, ma ad ogni modo varrebbe molto di più di qualsiasi manovra di bilancio.