Che garanzie ha il dipendente che denuncia illeciti nel suo ente?

di Franco Mostacci
pubblicato sul Foglietto della Ricerca

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Gli sprechi e la corruzione nella pubblica amministrazione sono costati 5,7 miliardi in Italia negli ultimi due anni. E la cifra è certamente sottostimata, perché riguarda solo ciò che è emerso dall’attività della Guardia di Finanza e della Corte dei Conti.

Il malaffare, riscontrato maggiormente nella sanità, riguarda più di 13mila dipendenti pubblici e risulta particolarmente difficile da arginare, proprio a causa della sua diffusione capillare.

Ma se dall’esterno non è semplice capire che qualcosa non sta andando per il verso giusto, all’interno degli uffici pubblici tanti dipendenti onesti sono a conoscenza di illeciti, ma non hanno gli strumenti per intervenire senza subire ritorsioni.

La legge 190/2012 sulla prevenzione della corruzione ha modificato il Dlgs 165/2001, introducendo l’articolo 54 bis sulla tutela del dipendente pubblico che segnala illeciti.

Escludendo i casi di responsabilità penale e civile in caso di diffamazione e calunnia, il dipendente “che denuncia all’autorità giudiziaria o alla Corte dei conti o all’Autorità nazionale anticorruzione (ANAC), ovvero riferisce al proprio superiore gerarchico condotte illecite di cui sia venuto a conoscenza in ragione del rapporto di lavoro, non può essere sanzionato, licenziato o sottoposto ad una misura discriminatoria, diretta o indiretta, avente effetti sulle condizioni di lavoro per motivi collegati direttamente o indirettamente alla denuncia”. L’adozione di eventuali misure discriminatorie deve essere segnalata alla Funzione Pubblica e l’identità del denunciante non può essere rivelata, né la denuncia può essere oggetto di accesso agli atti ai sensi della legge 241/1990 e s.m.i.

Tutto bene, quindi? Non proprio, visto che la garanzia dell’anonimato è solo teorica.

L’articolo 8 del codice di comportamento dei dipendenti pubblici emanato con il Dpr 62/2013, nell’ambito della prevenzione della corruzione, prevede che il dipendente, oltre a rispettare le misure necessarie per la prevenzione degli illeciti, segnali al proprio superiore gerarchico eventuali situazioni di illecito nell’amministrazione di cui sia venuto a conoscenza.

Lo stesso concetto è stato ribadito nel paragrafo 3.1.11 del Piano nazionale anticorruzione, in cui si afferma che ciascuna amministrazione, nel predisporre il piano triennale per la prevenzione della corruzione “deve prevedere al proprio interno canali differenziati e riservati per ricevere le segnalazioni la cui gestione deve essere affidata a un ristrettissimo nucleo di persone (2/3). Inoltre, occorre prevedere codici sostitutivi dei dati identificativi del denunciante e predisporre modelli per ricevere le informazioni ritenute utili per individuare gli autori della condotta illecita e le circostanze del fatto”.

In pratica, se un dipendente viene a conoscenza di un illecito deve informare il proprio superiore gerarchico, il quale potrebbe essere a sua volta coinvolto o, in ogni caso, esserne a conoscenza, visto che riguarda un ambito di cui è responsabile. La normativa, inoltre, non chiarisce cosa debba fare il superiore gerarchico interessato da una segnalazione di illecito da parte di un dipendente. Logica vuole che sia tenuto a sua volta a segnalarlo al proprio superiore gerarchico e così via fino a risalire all’organo di vertice. Con la conseguenza che la notizia “riservata” diventa nota a un certo numero di persone. Un meccanismo non certo a prova di fuga, che finisce per scoraggiare il denunciante.

Una gestione più efficace delle segnalazioni sarebbe quella che prevede come destinatario diretto ed esclusivo il responsabile per la prevenzione della corruzione, presente ormai in ogni ente in applicazione della legge 190/2012 e alcuni enti si stanno organizzando in tal senso.

Il decreto legge 90/2014 ha introdotto la competenza dell’Autorità Nazionale Anticorruzione a ricevere a sua volta le segnalazioni di illeciti di cui il pubblico dipendente sia venuto a conoscenza in ragione del proprio rapporto di lavoro.

A questo punto il povero dipendente non sa più a chi deve rivolgersi, essendo diventati ben 5 i soggetti interessati, di cui 3 esterni alla amministrazione di appartenenza (Autorità giudiziaria, Corte dei Conti, Anac) e 2 interni (superiore gerarchico, responsabile per la prevenzione della corruzione).

L’Anac ha reso noto che “intende dare immediatamente attuazione a queste disposizioni normative, aprendo un canale privilegiato a favore di chi, nelle situazioni di cui si è detto, scelga di rivolgersi all’Autorità e non alle vie interne stabilite dalla Pubblica Amministrazione di appartenenza” e, in attesa di una specifica regolamentazione della procedura ha già attivato, cedendo agli anglicismi, la casella di posta elettronica whistleblowing@anticorruzione.it

Resta da capire come l’Anac possa effettuare dall’esterno un’attività ispettiva e di vigilanza senza avere alcun potere inquirente. Sarebbe inaccettabile che, per svolgere la propria istruttoria, si rivolgesse ai vertici dell’amministrazione interessata dalla denuncia, alla quale il dipendente, anche per timore di ritorsioni, ha preferito non rivolgersi. Se ciò avvenisse, verrebbe meno la fiducia che molti ripongono nell’Autorità nazionale anticorruzione, soprattutto da quando è presieduta da Raffaele Cantone ed ha assorbito le funzioni dell’Autorità di vigilanza sugli appalti pubblici (Avcp).

Una cosa appare certa. La figura del segnalatore di illeciti o whistleblower, che dir si voglia, in Italia non potrà decollare fino a quando non sarà introdotta una procedura semplice e una effettiva garanzia dell’anonimato.

L’introduzione di un meccanismo premiale, da erogare al denunciante in proporzione alla somma recuperata o risparmiata, sarebbe, poi, di grande stimolo per debellare la piaga della corruzione negli uffici pubblici.