di Franco Mostacci
pubblicato sul Foglietto della Ricerca
Il 23 ottobre 2018, con una dura lettera inviata all’allora ministro dell’Economia Giovanni Tria, il commissario per gli affari economici Moscovici e il vice presidente della Commissione europea Dombrovskis, azionando il cosiddetto “braccio preventivo” del Patto di stabilità e crescita, bocciarono il Documento di programmazione di bilancio per il 2019 del Conte-I che fissava al 2,4% il rapporto deficit/Pil.
Dopo una lunga e serrata trattativa, il governo italiano fu costretto a cedere e ripiegare su un più cauto 2,04% per accontentare i desiderata di Bruxelles, nonché a modificare in corsa la Legge di bilancio.
A conti fatti, sappiamo che l’indebitamento del 2019 si fermò poi all’1,45% del Pil, quasi sei decimi in meno di quanto imposto dalla Commissione europea.
Si tratta di uno dei valori più bassi della serie storica e per fare meglio bisogna tornare all’1,3% del 2007 del governo Prodi (dopo 5 anni di eccessi del precedente governo Berlusconi) o, ancora più indietro ai governi Fanfani e Moro dei primi anni ’60 del secolo scorso.
In altre parole, la punizione che fu comminata sembra eccessiva e forse dettata da un pregiudizio nei confronti della inedita coalizione M5S-Lega, che peraltro divorziò nel volgere di pochi mesi.
Ma veniamo a oggi. Da gennaio di quest’anno è terminata la clausola di salvaguardia che, dallo scoppio della pandemia nel 2020, aveva sospeso i vincoli di bilancio e consentito agli Stati di adottare politiche fiscali espansive a sostegno dell’economia e per il contenimento del disagio sociale.
La scorsa primavera è stata aperta una procedura di infrazione per deficit eccessivi nei confronti dell’Italia (l’indebitamento 2023 è stato del -7,2%, ben oltre il fatidico -3%) e di altri Paesi.
E’ poi entrato in vigore il nuovo Patto di Stabilità, che chiede di porre nel medio termine un freno alla spesa primaria netta, a garanzia dell’equilibrio dei conti e della riduzione del debito pubblico.
In accordo con i nuovi principi, l’Italia ha trasmesso alla Commissione europea il Documento programmatico di bilancio (Dpb), che contiene gli impegni per gli anni a venire, sulla base dei quali è stata costruita la Legge di Bilancio 2025-2027 presentata in Parlamento. Ci sono, però, almeno un paio di cose che non tornano.
La prima è che alla luce delle più recenti stime sul terzo trimestre, l’obiettivo di crescita dell’1% per il 2024 ipotizzato nel Dpb è ormai irrealizzabile e il Pil nominale si dovrebbe attestare a un livello di 8-9 miliardi meno del previsto. Come rileva l’Ufficio Parlamentare di Bilancio “la debolezza dell’attività economica nella seconda metà del 2024 potrebbe inoltre ripercuotersi sul trascinamento statistico al 2025”, causando anche per l’anno a venire un risultato inferiore alle attese.
L’impatto sul deficit di tale ribasso è contenuto e quello sul debito pubblico è stimabile in qualche decimale aggiuntivo, ma in ogni caso il Dpb non appare veritiero.
Un altro aspetto – come fa notare l’Upb – è che “in modo non usuale, vengono inseriti nella quantificazione della manovra – a fini di copertura − gli effetti della retroazione fiscale”, che al netto della maggiore spesa per interessi valgono 1,5 miliardi nel 2025, mezzo miliardo l’anno successivo e 1 nel 2027. In pratica, “contrariamente alla prassi” osserva la Banca d’Italia, sono state conteggiate nel bilancio di previsione entrate ipotetiche, che dovrebbero derivare dal miglioramento economico conseguente alle misure previste dalla manovra, a copertura di spese certe.
Il prossimo 15 novembre la Commissione europea diffonderà le previsioni economiche autunnali e successivamente si pronuncerà sul documento programmatico di bilancio. Nell’ambito delle verifiche preventive previste dal Patto di stabilità, se ritiene che il Dpb non ne soddisfi i requisiti e non rispetti le raccomandazioni specifiche adottate per i Paesi con deficit eccessivi, può chiederne la revisione e con essa adeguate modifiche alla Legge di bilancio.
In Italia, come detto, è già recentemente accaduto, anche se il contesto politico (la Commissione è in fase di rinnovo) e regolamentare non sono più gli stessi, come anche le motivazioni alla base di quella decisione.
Resta il fatto che allora il deficit era molto più contenuto di quanto non lo sia ora e lo scenario internazionale offriva prospettive sicuramente più favorevoli.