I conti economici europei 2022 per settore istituzionale

di Franco Mostacci
I conti economici europei per settore istituzionale 2022 (rapporto statistico completo di tavole e grafici)
Open Data (tutti i dati del rapporto in formato Excel)

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Il rapporto mette insieme più di 600 mila numeri, che descrivono la sequenza dei conti economici in tre diverse dimensioni: la distribuzione geografica (i 27 Paesi dell’Unione europea); l’evoluzione temporale dal 1995 al 2022 (per l’Italia al 2022); i settori istituzionali (società non finanziarie o imprese; società finanziarie; pubblica amministrazione; famiglie e istituzioni non profit; resto del mondo).

I conti finanziari per settore istituzionale misurano, invece, le attività e passività detenute per singolo strumento finanziario: Oro monetario e diritti speciali di prelievo (F1); Biglietti, monete e depositi (F2); Titoli di credito (F3); Prestiti (F4); Partecipazioni e quote di fondi di investimento (F5); Assicurazioni, pensioni e garanzie standard (F6); Strumenti finanziari derivati (F7); Altri conti (F8).

I risultati del 2022 riflettono il consolidamento delle economie di tutti gli Stati, dopo le difficoltà incontrate nel 2020-2021 per fronteggiare l’emergenza sanitaria, con interventi pubblici che hanno sostenuto famiglie e imprese, passando per il settore finanziario. Al tempo stesso si registrano le conseguenze del forte aumento dell’inflazione causato dal rialzo dei prezzi delle materie prime energetiche.

Nel 2022 il valore aggiunto dell’Unione europea è stato di 14,2 miliardi di euro (+8,9% rispetto al 2021) e quello dell’Eurozona di 12,1 miliardi di euro (+8,4%). Rispetto alla crisi economica del 2008 l’aumento è stato del 39,5% nell’Eurozona e del 43,4% nell’Unione europea, ma solo del 19,4% in Italia.

Il conto corrente della Germania nei confronti dell’estero è in positivo dal 2002 e staziona dal 2015 intorno ai 250 miliardi, grazie soprattutto al surplus della bilancia commerciale. Nonostante i cittadini tedeschi abbiano il più elevato potere d’acquisto pro capite, la Germania, oltre ad avere i conti pubblici in ordine, si conferma un Paese con bassi consumi, elevato risparmio e un basso livello di investimenti, sia privati che pubblici. Tutto questo non aiuta la redistribuzione del reddito e della ricchezza tra Paesi.

L’Italia aveva nel 1995 un potere d’acquisto pro capite analogo a quello tedesco, ma da allora – e soprattutto dal 2007 – le differenze si sono ampliate (ora supera i 5 mila euro). Nello stesso arco temporale la propensione al risparmio delle famiglie italiane si è dimezzata dal 21% al 8% (minimo assoluto della serie storica). Le imprese italiane hanno visto erodere la loro quota di profitto e ciò dipende in gran parte dalla stagnazione della produttività, che è invariata dal 2000, mentre in Germania è aumentata del 33% rispetto al 1995. Nel 2023, per la prima volta dal 2016, il reddito nazionale lordo risulta inferiore al Pil, a causa soprattutto degli interessi passivi che perdono 40 miliardi nei confronti con l’estero.

La Francia, che insieme alla Spagna ha privilegiato l’intervento pubblico rispetto al consolidamento fiscale, ha invece un deficit di oltre 100 miliardi di euro nel saldo di conto corrente con l’estero, con la pubblica amministrazione indebitata per 127 miliardi  (le famiglie francesi sono però in attivo). Tuttavia, continua a mantenere un reddito nazionale che supera il Pil del 1,8%.

Tutto il contrario dell’Irlanda, in cui la concessione di condizioni di favore alle società multinazionali che hanno spostato a Dublino la loro sede fiscale, ha fatto aumentare il Pil, ma ha anche causato una fuoriuscita verso l’estero di 143 miliardi di redditi da capitale. Lo stesso accade in Lussemburgo, anche se per importi più limitati (12 miliardi di differenza tra Pil e Rnl).

In Grecia, le famiglie se la passano tutt’altro che bene con una propensione al risparmio negativa (-4% nel 2022). In pratica i cittadini greci consumano più del loro reddito, attingendo ai capitali accumulati in passato o – nella gran parte dei casi – indebitandosi nei confronti degli altri settori istituzionali e del resto del mondo.

I livelli di tassazione tra i Paesi restano ampiamente differenti, come pure la composizione del gettito tributario tra imposte indirette (iva, tasse e dazi su importazioni, imposte sui prodotti e sulla produzione), indirette (tasse sul reddito e altre tasse correnti) e in conto capitale.

La pressione fiscale varia tra il 47,8% della Francia e il 21,6% dell’Irlanda, ma il gap si riduce se si considera quanto lo Stato restituisce sotto forma di prestazioni sociali in denaro (pensioni) o in natura (beni o servizi forniti gratuitamente alle famiglie).

Il reddito disponibile pro capite corretto per i trasferimenti sociali in natura e riportato a parità di potere d’acquisto mostra valori doppi per un cittadino tedesco (oltre 28 mila euro) rispetto a un greco.

Tutto ciò che viene risparmiato e non reinvestito nell’economia va ad accrescere la ricchezza finanziaria, che sta acquistando un’importanza sempre maggiore rispetto all’economia reale.  Il Lussemburgo, nonostante le modestissime dimensioni, ha più di 11 mila miliardi di attività finanziarie, quattro volte i volumi dell’Italia.

I Paesi Bassi e la Germania vantano una solida posizione patrimoniale sull’estero, mentre quasi tutti gli altri Paesi risultano debitori, o sostanzialmente in pareggio come l’Italia.

Il saldo attivo delle società finanziarie italiane continua ad essere molto alto (419 miliardi nel 2022) e non ha uguali in Europa (in Germania sono 320 e in Francia sono in passivo per 177 miliardi).

Dai numeri esposti risulta evidente che in questi anni non si è fatto nulla per ridurre l’eterogeneità tra le economie dei Paesi dell’Unione europea.

Nell’Eurozona, a causa del persistere di notevoli differenze strutturali, la politica monetaria unitaria incide in maniera difforme sulla reattività e competitività dei singoli Paesi.

Ogni Paese europeo, poi, ha una propria politica fiscale, previdenziale, assistenziale e sanitaria, come anche diverse sono le regole del mercato del lavoro, alimentando la delocalizzazione della produzione nei Paesi in cui le retribuzioni sono inferiori e i costi per le imprese sono minori.

La mancanza di regole condivise ha generato all’interno dell’Unione europea disparità di trattamento fiscale per categorie di imprese o di cittadini, tanto che si può parlare di veri e propri paradisi fiscali.

Le differenze sono perfino maggiori se si considerano i Paesi UE che non hanno adottato la moneta unica, in cui la banca centrale nazionale persegue una propria politica monetaria.