di Franco Mostacci
pubblicato sul Fatto Quotidiano del 3 luglio 2023
pubblicato sul Foglietto della Ricerca
L’inflazione, come noto, erode il potere d’acquisto degli stipendi e l’assioma vale ancora di più per i dipendenti pubblici, che devono attendere anni per il rinnovo del contratto collettivo.
Fino ai primi anni ’90 dello scorso secolo, le retribuzioni dei lavoratori dipendenti venivano adeguate più o meno automaticamente, sulla base della variazione della indennità di contingenza. A luglio 1992 (governo Amato), con un’inflazione al 5,4%, si decise di interrompere la spirale inflazionistica abrogando definitivamente la scala mobile.
Un anno dopo, durante il governo Ciampi, fu introdotto il Tasso di inflazione programmata (Tip), un meccanismo che ha consentito per molti anni allo Stato di risparmiare sui rinnovi contrattuali, prevedendo un incremento dei prezzi inferiore alla realtà.
Con l’Accordo Quadro del 22 gennaio 2009, non sottoscritto dalla Cgil e dal sindacato di base, la durata contrattuale passò da quattro a tre anni e l’adeguamento economico fu agganciato alla variazione di un indice dei prezzi al consumo armonizzato al netto dei prodotti energetici importati (Ipca-Nei), calcolato attraverso un modello econometrico predisposto dall’Istituto di studi e analisi economica (Isae) vigilato dal Ministero dell’Economia, al quale è poi subentrato l’Istituto nazionale di statistica (Istat).
Per i dipendenti pubblici, la quantificazione dell’onere complessivo degli aumenti stipendiali deve essere effettuato in occasione della Legge di bilancio pluriennale (come anticipato nella Nota di aggiornamento al Def e nel Quadro programmatico di Bilancio) e senza tale decisione non si può dare il via alla contrattazione presso l’Aran.
La tornata contrattuale 2019-2021, per i diversi comparti in cui si articola il pubblico impiego, si è conclusa per la parte economica solo alla fine del 2022, mentre quella 2022-2024 non può partire prima del prossimo anno, sempre se sarà disposto il relativo stanziamento nella prossima Legge di Bilancio.
Le risorse necessarie sembrano essere consistenti. Secondo gli ultimi conteggi dell’Istat, la variazione dell’Ipca-Nei è stata del 6,6% nel 2022, si prevede che sarà altrettanto nel 2023 e del 2,9% nel 2024. Cumulativamente circa il 17% nel triennio.
Considerando che i dipendenti pubblici nel 2022 costavano 187 miliardi di euro, la spesa dovrà essere rivista di 12 miliardi per il 2022, di oltre 25 per il 2023 e di 31,6 a regime dal 2024. Non sarà facile per il Governo far quadrare i conti con la prossima manovra di bilancio, tenendo presenti i vincoli di finanza pubblica su deficit e debito previsti dal Patto di stabilità e crescita, che tornerà in vigore dal 2024, con o senza modifiche, dopo lo stop deciso in piena emergenza pandemica e prorogato fino alla fine di quest’anno.
Nel frattempo i lavoratori pubblici devono accontentarsi di un misero incremento dello stipendio per il 2023 di 1,5% una tantum, al quale si aggiunge un’indennità di vacanza contrattuale di 0,5% da luglio 2022, con i quali fare fronte a un carrello della spesa, i cui prezzi sono ancora in aumento di oltre il 10% rispetto allo scorso anno e con i mutui a tasso variabile ormai a livelli proibitivi, per le decisioni della Bce che da luglio scorso ha portato i tassi di interesse da 0% a 4%, annunciando nuovi aumenti a breve.
Una perdita secca di potere d’acquisto delle retribuzioni che non sarà più recuperata e che sta obbligando i dipendenti pubblici e le loro famiglie a enormi sacrifici e rinunce per cercare di arrivare a fine mese.