di Franco Mostacci
pubblicato su Il fatto Quotidiano del 25 luglio 2022
pubblicato su Il Foglietto della Ricerca
A giugno l’inflazione ha raggiunto l’8%, con una crescita ininterrotta da gennaio 2021, dopo che nel 2020 – anno di inizio della pandemia e delle restrizioni alla vita sociale – era stata addirittura negativa.
Gli annali statistici dicono che per trovare un valore più alto bisogna risalire a 36 anni fa e più precisamente a gennaio 1986, quando il termometro dell’inflazione segnava + 8,2%, in raffreddamento dopo il picco di +19,3% di giugno 1981, con la doppia cifra che aveva resistito fino a settembre 1984.
Un tuffo nel passato ci riporta al 1979, quando fu adottato il sistema monetario europeo (Sme), che legava il cambio di otto valute (tra cui il marco tedesco e il franco francese) ad una banda di oscillazione che per la lira era fissato al 6%. All’inizio degli anni ’80 del secolo scorso, si consumò il divorzio tra il Tesoro e la Banca d’Italia, che sancì la fine dell’obbligo per la Banca centrale di acquistare i titoli di stato invenduti. Il debito pubblico iniziò a salire, i salari erano agganciati alla scala mobile, l’Italia era nel pieno della prima Repubblica, la Banca d’Italia con l’allora governatore Ciampi faceva i salti mortali per difendere il cambio della lira dagli attacchi speculativi delle altre monete e nel 1986 il presidente del consiglio Craxi tentò inutilmente di introdurre la lira pesante, con un valore di mille volte quello in circolazione.
Al di là del diverso contesto storico e politico, il confronto tra l’inflazione di allora e quella di oggi presenta caratteristiche strutturali ben differenti.
Il paniere del 1986 ospitava per la prima volta gli “home computer” come il Commodore e l’Atari, gli antesignani dei personal computer. Tra i generi alimentari, entravano come consumi abituali il petto di tacchino, la passata di pomodoro, il cioccolato in crema (al secolo Nutella). E nell’abbigliamento i jeans, la maglietta polo e il tailleur primaverile. Alla benzina super e normale, si aggiunse anche il gasolio per i motori diesel. Da quell’anno, finirono invece nell’oblìo la pentola smaltata, il nastro per macchina da scrivere, la carta carbone, la cinepresa super8 con annessa pellicola, la radiolina portatile, la domestica a tutto servizio, la rasatura della barba, il canone per la radio e i corsi di stenografia.
Coefficienti di ponderazione degli indici dei prezzi al consumo per capitolo di spesa – anni 1986 e 2022 (valori percentuali)
Fonte: elaborazioni su dati Istat
Nel 1986, più di un quarto della spesa delle famiglie era destinato al consumo alimentare, un valore che oggi si è ridotto al 18,4%: il pane è passato da 1,6% a 0,9%, la pasta da 0,7% a 0,5%, le carni da 8,8% a 4,7%, il latte da 1,1% a 0,5%, i formaggi da 2,4% a 1,2%, la frutta da 2,4% a 1,4% e gli ortaggi freschi da 2,7% a 1,8%. I primi 4 capitoli di spesa, in cui, a parte i tabacchi, si concentrano la maggior parte dei consumi primari, rappresentavano 36 anni fa quasi la metà della spesa, un valore che oggi si è ridotto di 10 punti percentuali. Tutti gli altri capitoli hanno, invece, acquisito nel tempo una maggiore importanza. Il peso dei prodotti energetici è passato da 8,1% a 9,2% e l’acquisto di beni che allora assorbiva il 68,8% del totale è sceso al 58,5%, mentre in misura complementare il peso dei servizi è cresciuto del 10%.
Se la struttura dei consumi rispetto ad oggi era assai diversa, ancor di più lo è il contributo all’inflazione, che tiene conto anche della dinamica dei prezzi.
Contributi alla variazione degli indici dei prezzi al consumo per capitolo di spesa e tipologia di prodotto – gennaio 1986 e giugno 2022 (valori percentuali)
Fonte: elaborazioni su dati Istat
A gennaio 1986 i maggiori contributi alla variazione dell’indice dei prezzi al consumo erano dovute ai generi alimentari (+2,3%), abbigliamento e calzature (+1%), tempo libero, spettacoli e cultura (+0,9%), servizi ricettivi e di ristorazione (+0,9%). Attualmente, invece, in testa ci sono le spese per l’abitazione (+3%), i trasporti (+1,9%) e i generi alimentari (+1,7%).
Assai significativa è la scomposizione per tipologia, che si ottiene da una differente riclassificazione del paniere. Oggi, oltre la metà del totale è dovuta ai beni energetici (+4,1%) e in particolar modo alla bolletta della luce (1,59 punti), del gas (1,36), ai carburanti (1,15), mentre a gennaio 1986 la componente energetica era ininfluente.
Più in generale, possiamo dire che, mentre a metà degli anni ’80 l’aumento dei prezzi al consumo si formava in prevalenza sul mercato interno ed era trainato dalla domanda di beni e servizi, quella che stiamo vivendo è un’inflazione dovuta ai costi dei beni energetici, causata da speculazioni finanziarie sui mercati internazionali. Difatti, anche la componente di fondo dell’inflazione, calcolata escludendo i beni alimentari non lavorati e i beni energetici, se allora era pari a 6,7% ora è molto più contenuta (3,8%).
Un brutto colpo per le famiglie italiane, per le quali lo spettro dell’inflazione, con tutto quello che ne consegue, era ormai solo uno sbiadito ricordo. Se nei prossimi mesi, come è lecito attendersi, il prezzo degli energetici dovesse sgonfiarsi, anche la fiammata inflazionistica potrebbe rientrare. Però, in assenza di un meccanismo di adeguamento automatico degli stipendi (la scala mobile fu definitivamente abrogata a luglio 1992 con il governo Amato), resterà una perdita secca nel potere d’acquisto di coloro che vivono di un reddito fisso.
Molti contratti collettivi, sia pubblici che privati, sono scaduti da anni, come ammesso dallo stesso Draghi nell’ultimo discorso alle Camere. In ogni caso, la rivalutazione degli stipendi, legata all’indice dei prezzi al consumo armonizzati al netto dei prodotti energetici importati, è prevista nella misura del 4,7% per il 2022, un valore ben più basso dell’inflazione media attesa e insufficiente a riempire il carrello della spesa, i cui prezzi sono cresciuti dell’8,2% nell’ultimo anno.
Il bonus da 200 euro una tantum, concesso ai lavoratori dipendenti che guadagnano meno di 35 mila euro lordi con il decreto Aiuti, rappresenta una compensazione solo parziale della perdita di potere d’acquisto e, in assenza di un Governo con pieni poteri, ben poco si potrà fare nei prossimi mesi per aiutare le famiglie in difficoltà.