I conti economici europei 2020 per settore istituzionale

di Franco Mostacci
I conti economici europei per settore istituzionale 2020 (rapporto statistico completo di tavole e grafici)
Open Data (tutti i dati del rapporto in formato Excel)

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Il rapporto mette insieme più di 600 mila numeri, che descrivono la sequenza dei conti economici in tre diverse dimensioni: la distribuzione geografica (i 27 Paesi dell’Unione europea); l’evoluzione temporale dal 1995 al 2020 (per l’Italia al 2021); i settori istituzionali (società non finanziarie o imprese; società finanziarie; pubblica amministrazione; famiglie e istituzioni non profit; resto del mondo).

Attraverso i conti istituzionali si possono seguire i flussi economici non finanziari e le transazioni tra settori, partendo dalla produzione dei beni e servizi, passando dalla generazione, distribuzione e redistribuzione del reddito, per giungere all’utilizzo del reddito disponibile (consumi, risparmi e investimenti). Il saldo finale rappresenta l’accreditamento (se positivo) o l’indebitamento (se negativo)  del Paese nei confronti dell’estero e di ciascun singolo settore residente.

I conti finanziari per settore istituzionale misurano, invece, le attività e passività detenute per singolo strumento finanziario: Oro monetario e diritti speciali di prelievo (F1); Biglietti, monete e depositi (F2); Titoli di credito (F3); Prestiti (F4); Partecipazioni e quote di fondi di investimento (F5); Assicurazioni, pensioni e garanzie standard (F6); Strumenti finanziari derivati (F7); Altri conti (F8).

I risultati del 2020 riflettono le difficoltà incontrate dalle economie di tutti gli Stati per fronteggiare l’emergenza sanitaria, con interventi pubblici che hanno sostenuto famiglie e imprese, passando per il settore finanziario.

Nel 2020, il valore aggiunto a prezzi correnti dell’Unione europea è stato di 12 miliardi di euro (-4,1% rispetto al 2019) e quello dell’Eurozona di 10,3 miliardi di euro (-4,5%).  Rispetto all’inizio della crisi economica del 2008 l’aumento è stato del 18,8% nell’Eurozona e del 21,1% nell’Unione europea, ma solo del 1,4% in Italia.

Il conto corrente della Germania nei confronti dell’estero è in positivo dal 2002 ed ha raggiunto i 238 miliardi di euro nel 2020, grazie soprattutto al surplus della bilancia commerciale. Nonostante i cittadini tedeschi abbiano il più elevato potere d’acquisto pro capite, la Germania, oltre ad avere i conti pubblici in ordine, si conferma un Paese con bassi consumi, elevato risparmio e un basso livello di investimenti, sia privati che pubblici. Tutto questo non aiuta la redistribuzione del reddito e della ricchezza tra Paesi.

L’Italia aveva nel 1995 un potere d’acquisto pro capite analogo a quello tedesco, ma da allora – e soprattutto dal 2007 – le differenze si sono ampliate. Nello stesso arco temporale la propensione al risparmio delle famiglie italiane si è dimezzata dal 21% al 10% (nel 2021 è però al 15%, dopo il balzo del 2020 al 17% per il crollo dei consumi derivante dalle limitazioni alle attività economiche). Le imprese italiane hanno visto erodere la loro quota di profitto e ciò dipende in gran parte dalla stagnazione della produttività, che è invariata dal 2000, mentre in Germania, Francia e Regno Unito è aumentata del 30% rispetto al 1995.

La Francia, che insieme alla Spagna ha privilegiato l’intervento pubblico rispetto al consolidamento fiscale, ha invece un deficit di 59 miliardi di euro nel saldo di conto corrente con l’estero, di cui 209 di indebitamento della pubblica amministrazione (le famiglie francesi sono però in attivo). Tuttavia, continua a mantenere un reddito nazionale che supera il Pil del 1,7%.

Tutto il contrario dell’Irlanda, in cui la concessione di condizioni di favore alle società multinazionali che hanno spostato a Dublino la loro sede fiscale, ha fatto aumentare il Pil, ma ha anche causato una fuoriuscita verso l’estero di 89 miliardi di redditi da capitale. Lo stesso accade in Lussemburgo, anche se per importi più limitati (21 miliardi).

In Grecia, le famiglie se la passano tutt’altro che bene con una propensione al risparmio tornata leggermente in positivo (+2,6%) dopo 8 anni in cui i consumi eccedevano il reddito.

I livelli di tassazione tra i Paesi restano ampiamente differenti, come pure la composizione del gettito tributario tra imposte indirette (iva, tasse e dazi su importazioni, imposte sui prodotti e sulla produzione), indirette (tasse sul reddito e altre tasse correnti) e in conto capitale.

La pressione fiscale varia tra il 47,9% della Francia e il 20,9% dell’Irlanda, ma il gap si riduce se si considera quanto lo Stato restituisce sotto forma di prestazioni sociali in denaro (pensioni) o in natura (beni o servizi forniti gratuitamente alle famiglie).

Il reddito disponibile pro capite corretto per i trasferimenti sociali in natura e riportato a parità di potere d’acquisto mostra valori doppi per un cittadino tedesco (oltre 28 mila euro) rispetto a un greco.

Tutto ciò che viene risparmiato e non reinvestito nell’economia va ad accrescere la ricchezza finanziaria, che sta acquistando un’importanza sempre maggiore rispetto all’economia reale.  Il Lussemburgo, nonostante le modestissime dimensioni ha più di 10 mila miliardi di attività finanziarie, il triplo dell’Italia. La Germania e i Paesi Bassi vantano una solida posizione patrimoniale sull’estero, mentre quasi tutti gli altri Paesi risultano debitori. L’Italia (con le società finanziarie passate da 485 a 608 miliardi di saldo attivo) torna leggermente in attivo nel 2020, per la prima volta dal 1997.

Dai numeri esposti risulta evidente che in questi anni non si è fatto nulla per ridurre l’eterogeneità tra le economie dei Paesi dell’Unione europea.

Nell’Eurozona, a causa del persistere di notevoli differenze strutturali, la politica monetaria unitaria incide in maniera difforme sulla reattività e competitività dei singoli Paesi, tanto da mettere più volte in discussione l’intero impianto della moneta unica.

Ogni Paese europeo, poi, ha una propria politica fiscale, previdenziale, assistenziale e sanitaria, come anche diverse sono le regole del mercato del lavoro, che alimentano la delocalizzazione della produzione nei Paesi in cui le retribuzioni sono inferiori, riducendo i costi per le imprese.

La mancanza di regole condivise ha generato all’interno dell’Unione europea disparità di trattamento fiscale per categorie di imprese o di cittadini, tanto che si può parlare di veri e propri paradisi fiscali.

E’ da ritenere che gli squilibri macroeconomici siano aumentati nel 2020, per effetto dell’emergenza sanitaria, che ha colpito con intensità e tempi diversi i Paesi dell’Unione europea, con risposte non integrate e uniformi alla conseguente emergenza economica e sociale.