di Franco Mostacci
(pubblicato sul Foglietto della Ricerca)
Durante il lockdown, quando l’evento più atteso del giorno era il bollettino della Protezione Civile che alle 18 snocciolava le cifre di contagiati, ricoverati e deceduti, si sono venute a creare, nella migliore tradizione italica, due differenti scuole di pensiero.
Da un lato, quelli che sostenevano l’ipotesi della strage di vite umane senza precedenti provocata dal Covid-19 e dall’altra coloro che propendevano per l’irrilevanza statistica del numero di morti.
Solo a distanza di qualche mese ed avendo a disposizione le risultanze anagrafiche messe insieme dall’Istat con il Bollettino demografico mensile, attualmente aggiornato fino a maggio, è possibile iniziare ad effettuare alcune considerazioni con una certa cognizione di causa.
Numero di decessi in Italia nel periodo gennaio-maggio di ciascun anno 2014-2020
Fonte: Istituto nazionale di statistica
Tra gennaio e maggio 2020, si sono registrate in Italia 322.867 morti, 38.315 in più dello scorso anno, che diventano 41.406 se si considera la media del periodo 2014-2019. Al 31 maggio 2020 i morti accertati per Covid-19 (o con Covid-19) erano 33.415 e spiegano la maggior parte della differenza.
Numero di decessi mensili in Italia tra gennaio e maggio
Fonte: Istituto nazionale di statistica
Il picco si è avuto soprattutto a marzo (84.989 decessi) e ad aprile (70.957), mentre a maggio il numero è rientrato nella norma, praticamente uguale allo scorso anno.
Si può, quindi concludere, senza ombra di dubbio, che si sia registrata una maggiore mortalità dovuta al coronavirus, che ha colpito soprattutto le classi di età più avanzate.
Su base nazionale, risulta anche smentita l’ipotesi della compensazione di una minore mortalità dovuta al diverso stile di vita (calo di incidenti stradali e sul lavoro, minore esposizione ad agenti inquinanti).
Le cose cambiano significativamente se si considera la distribuzione regionale.
Differenza di decessi in Italia nel periodo gennaio-maggio tra il 2020 e il 2019 per regione
Fonte: Istituto nazionale di statistica
Un maggior numero di morti è avvenuto solamente nel Nord Italia e, in particolar modo in Lombardia (circa 25 mila decessi in più, di cui oltre 6 mila a Bergamo, 5 mila a Milano e 4 mila a Brescia), in Piemonte ed Emilia Romagna (quasi 5 mila ciascuna). Al contrario, nel Lazio e nel Sud Italia (con eccezione di Abruzzo e Puglia) la mortalità è diminuita. Al 31 maggio, in Lombardia erano stati ufficialmente riscontrati 16.112 decessi da Covid, ma visti i numeri, si può ritenere che siano stati molti di più.
La notevole asimmetria territoriale nella diffusione del contagio e, conseguentemente dei decessi, registrata nella prima parte dell’anno, può avere diverse motivazioni, ma è sconsigliabile utilizzare dati aggregati per analizzare la correlazione con altre variabili esplicative.
E’ quanto accaduto, invece, con lo studio Relationship between Influenza Vaccination Coverage Rate and Covid-19 Outbreak: an Italian Ecological Study, secondo il quale le regioni in cui gli over 65 si sono vaccinati di meno contro l’influenza, sono risultate maggiormente esposte al contagio del coronavirus.
Nella stagione influenzale 2019-2020 la copertura vaccinale è stata del 54,6% per la popolazione di età superiore ai 65 anni, in crescita costante negli ultimi anni (+1,5 punti percentuali sull’anno precedente), con valori che oscillano tra il 32,5% della provincia autonoma di Bolzano e il 65,4% del Molise.
Preliminarmente va osservato che, In luogo di questi numeri, nello studio citato sono stati utilizzati dati estrapolati delle passate stagioni, con una sovrastima generalizzata e particolarmente concentrata al Sud.
E se nella provincia di Bergamo, la più colpita dal Covid, la copertura vaccinale contro l’influenza lo scorso anno è stata ben più alta della media nazionale, appare anche difficile pensare che gli ospiti delle residenze per anziani non siano stati vaccinati. Insomma, le conclusioni dello studio, che arriva addirittura a quantificare il numero esatto di minori contagi a fronte di un aumento dell’1% nella copertura vaccinale dei più anziani, destano più di qualche perplessità.
La dimostrazione di un nesso causale tra la propagazione del virus e l’assenza di vaccinazione antinfluenzale non può che essere effettuata su analisi puntuali (censuarie o a campione) sui singoli contagiati.
Negli inverni 2014-2015 e 2016-2017, quando si registrò un aumento dei decessi superiori alla norma, si imputò l’evento alla bassa copertura vaccinale, trascurando la circostanza che nel corso delle suddette stagioni si manifestò un virus mutato, diverso da quello contenuto nel vaccino raccomandato. Nessuno, però, si prese la briga di andare a verificare quanti tra i deceduti per complicanze della sindrome influenzale, fossero o meno vaccinati.
Oggi, ancor più che allora, è possibile utilizzare le banche dati sanitarie per sapere se un soggetto contagiato dal Covid si era sottoposto alcuni mesi prima al vaccino antinfluenzale, in modo da poter determinare statisticamente, non solo se i due eventi possano essere messi in relazione, ma anche le eventuali differenze nel decorso e nella gravità della malattia.
Senza nulla togliere alla validità della prevenzione vaccinale, soprattutto per evitare in questo periodo la co-morbilità, appare del tutto priva di pregio l’affermazione della Regione Lazio secondo cui “recenti studi scientifici hanno dimostrato che si infetta di più con SARS-COV 2 chi non è vaccinato contro il virus dell’influenza”.
Alla vigilia dell’inverno e con la ripresa dei contagi a ritmi sostenuti, per avere maggiori certezze scientifiche, è sempre più importante predisporre un monitoraggio che incroci la positività al Covid-19 con l’effettuazione del vaccino antinfluenzale.