I conti economici europei 2018 per settore istituzionale

di Franco Mostacci
I conti economici europei per settore istituzionale 2018 - (rapporto statistico completo di tavole e grafici)

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Il rapporto mette insieme circa 600 mila numeri, che descrivono la sequenza dei conti economici in tre diverse dimensioni: la distribuzione geografica; l’evoluzione temporale dal 1995 al 2018; i settori istituzionali (società non finanziarie o imprese; società finanziarie; pubblica amministrazione; famiglie e istituzioni non profit; resto del mondo).

Attraverso i conti istituzionali si possono seguire i flussi economici non finanziari e le transazioni tra settori, partendo dalla produzione dei beni e servizi, passando dalla generazione, distribuzione e redistribuzione del reddito, per giungere all’utilizzo del reddito disponibile (consumi, risparmi e investimenti). Il saldo finale rappresenta l’accreditamento (se positivo) o l’indebitamento (se negativo)  del Paese nei confronti dell’estero e di ciascun singolo settore residente.

Nel 2018, il valore aggiunto a prezzi correnti è aumentato del 19,8% nell’Eurozona e del 20,8% nell’Unione europea  rispetto all’inizio della crisi economica, ma solo del 7,3% in Italia, grazie a imprese (+5,1%) e Famiglie (+2%).

Il conto corrente della Germania nei confronti dell’estero è in positivo dal 2002 ed ha raggiunto i 252 miliardi di euro nel 2018, grazie soprattutto al surplus della bilancia commerciale. Nonostante i cittadini tedeschi abbiano il più elevato potere d’acquisto pro capite, la Germania, oltre ad avere i conti pubblici in ordine, si conferma un Paese con bassi consumi, elevato risparmio e un basso livello di investimenti, sia privati che pubblici. Tutto questo non aiuta la redistribuzione del reddito e della ricchezza tra Paesi.

L’Italia aveva nel 1995 un potere d’acquisto pro capite analogo a quello tedesco, ma da allora – e soprattutto dal 2007 – le differenze si sono ampliate. Nello stesso arco temporale la propensione al risparmio delle famiglie italiane si è dimezzata dal 21% al 10%. Le imprese italiane hanno visto erodere la loro quota di profitto e ciò dipende in gran parte dalla stagnazione della produttività, che è invariata dal 2000, mentre in Germania, Francia e Regno Unito è aumentata del 30% rispetto al 1995.

La Francia, che insieme alla Spagna ha privilegiato l’intervento pubblico rispetto al consolidamento fiscale, ha invece un deficit di 12 miliardi di euro nel saldo di conto corrente con l’estero, di cui 60 della pubblica amministrazione (le famiglie francesi sono però in attivo). Tuttavia, continua a mantenere un reddito nazionale che supera il Pil del 2,4%.

Tutto il contrario dell’Irlanda, in cui la concessione di condizioni di favore alle società multinazionali che hanno spostato a Dublino la loro sede fiscale, ha fatto aumentare il Pil , ma ha anche causato una fuoriuscita verso l’estero di oltre 70 miliardi di redditi da capitale.

Anche il Regno Unito, che storicamente ha sempre avuto un reddito nazionale superiore al prodotto interno, dal 2012 versa in una situazione di deflusso dei redditi verso l’estero. Dal 23 giugno 2016 (referendum sulla Brexit) alla fine del 2018 la sterlina ha perso il 17% del suo valore rispetto all’euro.

In Grecia, dove le famiglie se la passano tutt’altro che bene con una propensione al risparmio addirittura negativa  (-6% nel 2018), le imprese e le società finanziarie possono vantare tassi di profitto superiori al resto d’Europa.

I livelli di tassazione tra i Paesi restano ampiamente differenti, come pure la composizione del gettito tributario tra imposte indirette (iva, tasse e dazi su importazioni, imposte sui prodotti e sulla produzione), indirette (tasse sul reddito e altre tasse correnti) e in conto capitale.

La pressione fiscale varia tra il 48,5% della Francia e il 22,8% dell’Irlanda, ma il gap si riduce se si considera quanto lo Stato restituisce sotto forma di prestazioni sociali in denaro (pensioni) o in natura (beni o servizi forniti gratuitamente alle famiglie).

Il reddito disponibile pro capite corretto per i trasferimenti sociali in natura e riportato a parità di potere d’acquisto vede ai primi posti il Regno Unito e la Germania , con valori doppi rispetto a Portogallo e Grecia.

Tutto ciò che viene risparmiato e non reinvestito nell’economia va ad accrescere la ricchezza finanziaria, che sta acquistando un’importanza sempre maggiore rispetto all’economia reale.  Il Lussemburgo, nonostante le modestissime dimensioni ha più di 10 mila miliardi di attività finanziarie, il quadruplo dell’Italia. La Germania e i Paesi Bassi vantano una solida posizione patrimoniale sull’estero, mentre quasi tutti gli altri Paesi risultano debitori.

Dai numeri esposti risulta evidente che in questi anni non si è fatto nulla per ridurre l’eterogeneità tra le economie dei Paesi dell’Unione europea.

Nell’Eurozona, a causa del persistere di notevoli differenze strutturali, la politica monetaria unitaria incide in maniera difforme sulla reattività e competitività dei singoli Paesi, tanto da mettere più volte in discussione l’intero impianto della moneta unica.

Ogni Paese europeo, poi, ha una propria politica fiscale, previdenziale, assistenziale e sanitaria, come anche diverse sono le regole del mercato del lavoro, che alimentano la delocalizzazione della produzione nei Paesi in cui le retribuzioni sono inferiori, riducendo i costi per le imprese.

La mancanza di regole condivise ha generato all’interno dell’Unione europea disparità di trattamento fiscale per categorie di imprese o di cittadini, tanto che si può parlare di veri e propri paradisi fiscali.

Pur in presenza di una crescita generalizzata nel 2018 per le economie europee, gli squilibri macroeconomici non accennano a ridursi con il passare del tempo.

Le conseguenze sull’economia dell’emergenza sanitaria del 2020 costringerà a un ripensamento della governance complessiva, anche se le posizioni continuano a rimanere differenti, preferendo gli interessi nazionali alla costruzione di una vera e propria casa comune europea.