di Franco Mostacci
pubblicato sul Foglietto della Ricerca
L’articolo è apparso sul Fatto Quotidiano del 24 maggo 2017 sotto il titolo “Il balzo dell’euro può affondare i conti italiani“
Secondo le stime preliminari dell’Istat, il Pil del primo trimestre 2017 è aumentato di 0,2%, lo stesso ritmo con il quale si era chiuso il 2016. Nonostante il dato positivo, la crescita in Italia resta molto lenta rispetto al resto dell’UE (+0,5%).
Nel Documento di economia e finanza (Def) dello scorso aprile, il Governo ha previsto una crescita del Pil di 1,1% nel 2017. Per raggiungere tale risultato il ritmo di crescita dovrebbe però accelerare in ciascuno dei prossimi trimestri a +0,5%, al netto degli aggiustamenti per le giornate lavorative e gli effetti di calendario.
Le recenti stime dell’Istat per il 2017 indicano, invece, un +1%, che corrisponde a un tasso di aumento trimestrale di +0,4%.
Sebbene tutti si augurino che la ripresa economica si rafforzi, con effetti benefici sull’occupazione, al momento i pronostici appaiono improbabili per almeno due motivi.
Il primo è legato al cambio euro/dollaro che sta navigando su livelli intorno a 1,12. Nella stima del Ministero dell’Economia era, invece, fissato a 1,06 fino al 2020. Nell’analisi di rischio (o di sensitività) sulle variabili esogene, il Def ammette che una rivalutazione dell’euro di questa portata si ripercuoterebbe in una minore crescita del Pil di circa mezzo punto (per la minore competitività delle esportazioni). Non a caso, l’Ufficio Parlamentare di Bilancio, pur validando il Programma di Stabilità, aveva fatto notare che l’ipotesi tecnica di cambio costante nel quadriennio “appare in contrasto con le attese del mercato”, che hanno poi trovato conferma in questi giorni. Dal canto suo l’Istat fissa l’asticella del cambio euro/dollaro a 1,084 per il 2017, ma anche questo valore sembra oggi irrealistico.
Il secondo riguarda il tapering, ossia l’uscita progressiva dalle misure di stimolo monetario intraprese dalla Bce, che hanno portato la Banca d’Italia ad acquistare in due anni quasi 200 miliardi di euro di titoli di Stato, di cui ora ne detiene il 15,6% (era il 5,5% a febbraio 2015). Secondo Draghi “la crisi è ormai alle nostre spalle” e questo lascia presagire che, fin dalla prossima riunione di inizio giugno, il Board della Bce potrebbe prendere decisioni sulla fine del Quantitative Easing. Ben sapendo che, prima ancora di divenire effettive, l’annuncio di misure future è di per sé sufficiente per provocare la reazione dei mercati.
Il prezzo del petrolio continua a mantenersi su livelli sufficientemente bassi, ma sembra ormai volgere al termine la stagione delle condizioni esterne favorevoli alla crescita economica, senza che l’Italia, distratta da sterili dibattiti politici su riforme costituzionali e leggi elettorali, ne abbia approfittato per risanare i conti pubblici, risolvere i problemi strutturali che la attanagliano e recuperare il gap di competitività con i partner europei.
Nonostante la sostanziale fiducia concessa dalla Commissione europea all’Italia per il 2017, spetterà al governo Gentiloni, a meno di ribaltoni estivi, rivedere in autunno le stime di crescita e varare una legge di Stabilità che si preannuncia ancora più complessa.