di Franco Mostacci
pubblicato sul Foglietto della Ricerca
L’articolo è apparso su Il Fatto Quotidiano del 10 maggio con il titolo “Il mega errore nel def che fa schizzare i redditi”
Nel fumoso documento di economia e finanza (Def) 2017, all’interno del quale non è facile districarsi tra quadro macroeconomico tendenziale (corretto per la manovra di aggiustamento) e scelte programmatiche che si concretizzeranno solo con la prossima legge di stabilità, spunta l’interessante novità del Benessere equo e sostenibile (Bes).
Non senza enfasi, si legge nel Def che “l’Italia è il primo Paese dell’Unione europea e del G7 dove il Governo è tenuto a valutare in maniera sistematica, ex ante ed ex post, l’impatto delle politiche sulle diverse dimensioni del benessere”.
Il passaggio non è affatto irrilevante. Anche se negli anni a venire il Pil resterà al centro delle politiche economiche, si inizierà almeno a tener conto degli effetti della crescita economica nei confronti delle altre dimensioni che rappresentano la qualità della vita, in primo luogo sociali e ambientali.
A decidere le variabili di controllo da prendere in considerazione sarà il “Comitato per gli indicatori di benessere equo e sostenibile”, costituito presso l’Istat, ma presieduto dal Ministro dell’Economia. Una scelta che sembra sancire la prevalenza della politica sugli aspetti scientifici ed accademici, che da qualche anno animano il dibattito intorno a questo tema.
Per il momento, su base sperimentale, sono stati selezionati quattro indicatori: il reddito medio disponibile pro capite aggiustato per i trasferimenti in natura ricevuti dalla pubblica amministrazione e dalle istituzioni non profit; un indice di disuguaglianza del reddito disponibile; il tasso di mancata partecipazione al lavoro e le emissioni ambientali di anidride carbonica e altri gas.
Per ciascuno di essi sono indicati nel Def i dati di consuntivo dal 2014 al 2016 e le stime tendenziali e programmatiche nell’orizzonte previsivo 2017-2020.
Ma proprio il primo degli indicatori è al centro di un infortunio, forse dettato dalla fretta, ma che sicuramente poteva essere gestito in maniera migliore dal Ministero dell’economia. Il Programma di Stabilità 2017, originariamente pubblicato il 13 aprile scorso sul sito del Mef, metteva a confronto il reddito medio disponibile pro capite a prezzi correnti con il Pil pro capite a prezzi costanti. Un confronto impari, in cui è normale che il primo corra più del secondo, ma non secondo il Mef per il quale era un segnale che “l’indicatore recupera dalla crisi molto più decisamente del Pil pro capite (reale, ndr)”.
Solo successivamente, il grafico a pagina 8 è stato sostituito – senza peraltro alcuna indicazione di errata corrige – ed ora si può leggere che “l’indicatore recupera dalla crisi seguendo grosso modo la dinamica del Pil pro capite (questa volta inteso in senso nominale, ndr)“.
Al di là di questo spiacevole episodio, sarebbe stato opportuno che fossero esplicitati i motivi per i quali il reddito medio annuo pro capite indicato nel Def è maggiore di 3.500 euro rispetto all’omologo indicatore valutato dall’Istat nel Rapporto sul Bes.
Resta ora da verificare se negli anni a venire il reddito disponibile aggiustato terrà lo stesso ritmo di aumento del Pil pro capite nominale, oppure se i dividendi della crescita andranno a premiare maggiormente le imprese e il settore finanziario.
Tuttavia, proprio il confronto tra il quadro previsionale tendenziale e programmatico, fa emergere che il reddito disponibile delle famiglie, aggiustato per i trasferimenti in natura ricevuti dalla pubblica amministrazione e dalle istituzioni non profit, rimane indifferente alla clausola di salvaguardia sull’Iva, che, qualora scattasse dal 1 gennaio 2018, inciderebbe, invece, per almeno 300 euro pro capite l’anno.
Per poterlo rendere un vero indicatore del benessere materiale, il reddito disponibile andrebbe depurato dall’Iva, le accise e tutte le altre imposte che gravano sui consumi e sul risparmio.