di Franco Mostacci
Nell’ultimo Rapporto sulla stabilità finanziaria la Banca d’Italia ha segnalato “un forte aumento della volatilità attesa per il mercato italiano a ridosso della prima settimana di dicembre, in corrispondenza con il referendum sulla riforma costituzionale”.
Che in occasione della prossima tornata elettorale – anche in conseguenza del clima politico da ultima spiaggia evocato da alcuni – si assisterà a turbolenze finanziarie, è un’affermazione degna del miglior Catalano, il “filosofo” di Quelli della Notte.
Sarebbe, invece, il caso di soffermarsi anche su quanto è accaduto finora, a un anno dal bail in di Banca Etruria, Banca delle Marche, CariFerrara e CariChieti, che ha azzerato i risparmi di circa 130 mila azionisti e obbligazionisti.
Alla chiusura di ieri, il principale indice borsistico italiano il Mib40 ha lasciato sul campo il 21% del suo valore di inizio anno, laddove il Dow Jones americano è cresciuto del 10% e il Ftse 100 inglese del 8,7%, il Dax tedesco ha ceduto l’1%, il Cac40 francese il 1,3%, il Nikkei giapponese il 3,8% e l’Ibex spagnolo il 9%.
Quali le cause di questo andamento particolarmente negativo del mercato azionario italiano?
Il Mib40 è fortemente caratterizzato dalla presenza di titoli azionari di istituti bancari, la cui performance nel 2016 è stata catastrofica: Mps -82,6%; Banco Popolare -79,6%; Banca di Milano -66,8%; Ubi banca -66%; Unicredit -60,6%; Banca Popolare Emilia Romagna -46,2%; Fineco Bank -36%; Intesa SanPaolo -32,1%; Mediobanca -26,7%; Banca Mediolanum -16,4%.
Il crollo dei titoli azionari riflette la crisi sistemica degli istituti di credito italiani e non ha nulla a che vedere con i timori di un rigetto della riforma costituzionale, come del resto la risalita dello spread.
Se – e in che misura – l’andamento della borsa influisca, poi, sull’economia reale è una questione alquanto controversa, soprattutto in Italia, dove il tasso di capitalizzazione finanziaria rispetto al Pil è relativamente basso, anche per la struttura imprenditoriale, caratterizzata da una quota elevata di piccole e medie imprese.
L’Istat, nelle Prospettive per l’economia italiana 2016-2017, ritiene tuttavia che “le incertezze legate al riaccendersi delle tensioni sui mercati finanziari potrebbero condizionare il percorso di crescita delineato”.
Un’affermazione che, nel contesto in cui è inserita e a differenza di quanto dichiarato da Banca d’Italia, non sembra essere direttamente riferibile al referendum costituzionale, anche se, nel clima elettorale infuocato, ha offerto il fianco ad alcune interpretazioni strumentali.
A pochi giorni dal voto, non poteva mancare l’endorsement dell’Ocse (fino a tre anni fa guidato da Padoan), secondo cui la “riforma costituzionale rappresenterebbe un passo in avanti nel processo di riforme e rafforzerebbe la governance politica ed economica”.
Più obiettivo appare il passaggio in cui si ammette che “l’ampio stock di crediti in sofferenza delle banche e l’incertezza della ripresa ostacolano l’erogazione di prestiti, rallentando il recupero degli investimenti”.
Una situazione che si trascina da tempo e la cui soluzione non è più rinviabile, a prescindere dall’esito del referendum di domenica.