Nel 2015 i derivati ci sono costati altri 6,7 miliardi di euro. E non è finita qui

di Franco Mostacci
pubblicato sul Foglietto della Ricerca

derivati

Tra la miriade di dati messi a disposizione da Eurostat in occasione della notifica sull’indebitamento e il debito della pubblica amministrazione, spiccano quelli relativi ai derivati sui titoli di Stato.

In tutta l’Eurozona, l’esposizione in strumenti finanziari derivati riguarda praticamente solo l’Italia, che nel periodo 2011-2015 ha corrisposto pagamenti per 15,6 miliardi e altre passività per 8 miliardi, per un totale di quasi 24 miliardi di euro.

In misura minore, sono interessati la Germania (2 miliardi di euro) e l’Austria (1,3 miliardi di euro), mentre alcuni Stati ricavano un rendimento positivo dalla gestione dei derivati (Paesi Bassi, Belgio, Francia, Portogallo, Grecia, Irlanda).

Nel solo 2015 l’Italia ha dovuto sborsare 6,7 miliardi di euro per onorare impegni presi con le banche d’affari che hanno imposto allo Stato ‘contratti capestro’ – come li definisce Elio Lannutti di Adusbef – le cui condizioni sono secretate dal Ministero dell’Economia, perfino nei confronti del Parlamento, per non urtare la suscettibilità dei sottoscrittori del debito pubblico, in particolare degli specialisti.

Come hanno fatto notare alcuni analisti economici, nel 2015 sono stati ricavati 6,56 miliardi di euro dalla vendita dei gioielli di famiglia (Enel, Poste), con conseguente depauperamento del patrimonio mobiliare dello Stato, per coprire il buco dei derivati.

E l’emergenza non è finita, dato che il ‘mark to market’ al 31 dicembre 2014, ovvero quello che lo Stato avrebbe dovuto versare per rescindere tutti i contratti derivati in corso di validità, è negativo per 42 miliardi di euro.

Analizzando più in dettaglio i conti pubblici, si può capire quale impatto abbiano su di essi gli strumenti finanziati derivati.

Grazie alla riduzione dei tassi, nell’anno appena trascorso sono stati risparmiati 5,9 miliardi di euro sulla spesa per interessi, che risultano però vanificati dalle passività sui derivati, in un gioco al massacro in cui lo Stato italiano (e i cittadini che lo finanziano attraverso le tasse) è sempre destinato a perdere.

Con le nuove regole di contabilità nazionale previste dal Sec 2010, la spesa per derivati non viene più conteggiata nell’indebitamento. Si tratta di un vero e proprio regalo di cui ha beneficiato l’Italia, che altrimenti avrebbe visto salire il proprio deficit dal 2,6% al 3% anche nel 2015, al limite della procedura per deficit eccessivi.

Senza i 23,6 miliardi di derivati accumulati in 5 anni, il debito sarebbe al 131,3% del Pil, anziché al 132,7%, favorendo il percorso di rientro previsto dal Fiscal Compact.

Anziché consegnarli alle banche d’affari, i 6,7 miliardi di euro sarebbero potuti servire per eradicare quasi totalmente la povertà assoluta, attraverso misure di sostegno al reddito o per stimolare l’economia attraverso investimenti pubblici.

Ma, forse, sarebbe chiedere troppo alla politica economica del Governo in carica.

Esposizione in strumenti finanziari derivati nell’Unione Monetaria Europea – Anni 2011-2015 (milioni di euro)
2016_edp_fig4Fonte: elaborazioni su dati Eurostat