di Franco Mostacci
pubblicato sul Fatto Quotidiano del 11 novembre 2015 (pag. 17)
Correva il 1987 quando il governo Craxi accolse con grande soddisfazione il sorpasso dell’economia italiana su quella britannica.
Da quell’anno, infatti, l’economia sommersa fu conteggiata nel Pil e ne causò una rivalutazione del 18%, consentendo all’Italia di raggiungere il quinto posto tra le potenze economiche occidentali.
Valutare a quanto ammonta tutto ciò che rappresenta l’economia non osservata non è impresa facile, trattandosi di fenomeni sfuggenti per definizione, ma per motivi di comparabilità internazionale si ritenne che il Pil non potesse farne a meno.
Nel 2008, l’ultimo anno per il quale l’Istat ha fornito una serie storica, l’economia sommersa era compresa tra il 16,3% e il 17,5% del Pil (tra i 255 e i 275 miliardi di euro), in diminuzione rispetto al 19,1% del 2000.
Nel 2011, Tremonti incaricò il presidente dell’Istat Enrico Giovannini di coordinare presso il ministero un gruppo di lavoro sull’economia non osservata e i flussi finanziari, che si concluse con la redazione di un articolato rapporto, in cui si manifestava l’esigenza di poter disporre di informazioni più tempestive, periodiche e puntuali .
A dicembre di quell’anno, quando il premier Monti – subentrato a Berlusconi – varò il decreto ‘Salva Italia’, lo stesso Giovannini, nel corso dell’audizione parlamentare, suggeriva di realizzare e rendere pubblica a cadenza annuale una stima ufficiale dell’evasione. Ma, la richiesta cadde nel vuoto.
Con la revisione del sistema dei conti nazionali conseguente all’introduzione del Sec2010, l’Istat ha innovato i metodi di calcolo, stimando per il 2011 un’economia sommersa di circa 187 miliardi di euro, l’11,5% del Pil.
Tra le cause, la sottodichiarazione dei redditi , che si presume riguardi solo le imprese di piccole e medie dimensioni, aveva un’incidenza del 5,7% (94 miliardi); il lavoro irregolare valeva il 4,3% (71 miliardi) e le altre tipologie di sommerso, tra cui gli affitti in nero, l’1,4% (23 miliardi). Un ulteriore 0,9% del Pil (14,7 miliardi) era, poi, imputabile alle attività illegali (traffico di droga, contrabbando, prostituzione), per un totale di oltre 200 miliardi di euro, di cui l’80% riguardante il terziario.
Al netto dell’economia non osservata la pressione fiscale nel 2011 salirebbe al 47,4%, rispetto al 41,6% riportato nelle statistiche ufficiali.
Una differenza non di poco conto, di cui si potrebbe seguire l’evoluzione se l’Istat rendesse nota la serie storica sull’entità e la composizione dell’economia non osservata.
Ciò aiuterebbe anche a capire se, dopo il 2008, la crisi di liquidità ha fatto aumentare i pagamenti in nero e ridurre la compliance fiscale dei contribuenti italiani oppure se nel suo complesso l’economia sommersa sia diminuita perché gli effetti della crisi hanno colpito maggiormente alcuni settori più propensi all’evasione.
Un vuoto informativo, solo in parte colmato dal Rapporto sui risultati conseguiti in materia di misure di contrasto dell’evasione fiscale, allegato alla Nota di aggiornamento al Def, secondo cui il tax gap, ovvero l’ammontare di imposte non riscosse nel periodo 2007-2013 comprensivo anche dei comportamenti evasivi, si aggira sui 91 miliardi di euro l’anno, di cui 44 di Irpef e Ires, 40 di Iva e 7 di irap. Ai quali si devono aggiungere altri 4,2 miliardi di mancato gettito Imu.
Vista la rilevanza della posta in gioco non è più rimandabile una riconciliazione e diffusione delle cifre sull’evasione fiscale, che consentirà di valutare sia gli effetti delle politiche adottate e dei provvedimenti in corso d’emanazione, sia l’efficacia delle misure di contrasto.