di Franco Mostacci
pubblicato sul Foglietto della Ricerca
Sono trascorsi ormai venti giorni dal deposito della sentenza n.70/2015 della Consulta, che ha definito incostituzionale il decreto “Salva Italia” emanato del Governo Monti, nella parte in cui taglia per il 2012-2013 l’adeguamento al costo della vita dei trattamenti pensionistici che eccedono di tre volte il trattamento minimo Inps.
In assenza di quantificazioni ufficiali da parte del Ministero dell’Economia o dell’Inps, si sono rincorse voci le più disparate su quanto costi alle casse dello Stato l’applicazione della sentenza, con un range che va dai 3 ai 20 miliardi di euro lordi. Dove ‘lordi’ sta a significare che una parte dei soldi versati rientrerebbero allo Stato come Irpef, andando a incrementare la pressione fiscale.
A fare un po’ di chiarezza sotto il profilo tecnico ci ha provato l’Ufficio Parlamentare di Bilancio, con il Rapporto sulla programmazione di bilancio 2015.
Un pensionato che aveva 3,5 volte il trattamento minimo (circa 1.640 euro lordi al mese) avrebbe maturato a tutto il 2014 circa 3.000 euro di arretrati e la sua pensione dovrebbe essere maggiorata nel 2015 di 1.230 euro (poco meno di 100 euro lordi al mese, tredicesima inclusa).
Al crescere dell’importo della pensione, il beneficio derivante dalla sentenza aumenta.
Infatti, un pensionato con 9,3 volte il trattamento minimo Inps (circa 4.350 euro lordi) potrebbe recuperare quasi 7.000 euro di arretrati e avere un aumento di 2.831 euro nel 2015.
Dal punto di vista logico, la sentenza della Consulta rende disastrosa una norma di per sé iniqua. Non si comprende per quale motivo l’adeguamento al costo della vita, seppure graduato, debba riguardare l’intero importo della pensione e non, invece, una quota uguale per tutti, corrispondente alla parte di reddito destinata al consumo.
Tanto più che le pensioni più elevate, calcolate con il sistema retributivo, sono in genere maggiori dei contributi effettivamente versati durante la vita lavorativa e rappresentano un costo insostenibile per le casse pubbliche. Non è un caso, infatti, che con il passaggio obbligatorio al regime contributivo, il beneficio previdenziale è stato drasticamente ridotto per la platea degli attuali lavoratori e futuri pensionati.
Non si comprende, poi, come la Corte Costituzionale abbia potuto invocare disparità di trattamento in danno dei destinatari dei trattamenti pensionistici, a prescindere dai redditi percepiti, laddove analoga richiesta è stata finora respinta per i pubblici dipendenti, ai quali è negato dal 2010 il rinnovo del contratto, che corrisponde a un recupero del potere di acquisto eroso dall’inflazione.
Le conseguenze sui conti pubblici della completa esecuzione della sentenza richiederanno un aggiustamento fiscale, vale a dire nuove tasse o tagli di spese. A pagare saranno tutti, con la conseguenza che per aumentare la pensione di colui che ha già un reddito “sufficiente ad assicurare a sé e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa” (art. 36 comma 1 della Costituzione) saranno chiamate a contribuire anche le fasce più deboli. Con un effetto redistributivo al contrario.
L’Ufficio Parlamentare di Bilancio fa anche sapere che sia gli arretrati sia gli adeguamenti a regime a partire dal 2015 andranno a gravare sul deficit di quest’anno, che secondo il Def dovrebbe attestarsi al 2,5% del Pil.
Se l’ammontare dei pagamenti dovesse essere superiore allo 0,5% del Pil (circa 8 miliardi di euro netti), anche se rateizzati su più anni, l’Italia incorrerebbe nella procedura per deficit eccessivi, dovendo anche rinunciare alla deviazione temporanea dal piano di rientro dal deficit strutturale, che si tradurrebbe in nuovi sacrifici per tutti.
Non a caso il Governo ha pensato di risolvere la questione con un decreto legge – ancora tutto da scrivere e per il quale si annuncia un iter parlamentare burrascoso – con il quale concede un rimborso ‘una tantum’, compreso tra 750 e 278 euro, a 3,7 milioni di pensionati al di sotto dei 3.200 euro mensili, con un esborso totale di 2,18 miliardi di euro lordi.
Una irricevibile elemosina per chi già pregustava il risarcimento previsto dalla sentenza della Consulta. L’impressione che se ne trae è che il Governo, con l’acqua alla gola, abbia preferito un contenzioso con gli aventi diritto, il cui effetto sarà differito negli anni a venire, a un’immediata contestazione da parte della Commissione europea per violazione del deficit.